Al primissimo istante, è come se si entrasse in un acquario (W. B.)

“Sollevo la testa dal lavandino e la scuoto sgrullando gocce dal viso incerto mi aggrappo con forza alla cornice rossa con l’unghie che premono bianche mi tiro su e m’affaccio curioso allo specchio finestra opaca ultimo varco guardo col fiato corto i miei occhi li vedo annaspare gorgogliando dentro il vortice melmoso e ossuto delle mie vecchie occhiaie vertigine lucida di questa mia perfida stagione unica, vi assicuro, che si chiuderà finale grandioso! con un salto nel nulla.”
(dal suo libro “Il cantastorie”: 2013) ;

Capestrano
per Francesco Manzini

Il mondo, parmi, si fa beffe di noi, Francesco, amico
così poco francescano che ti muovi
nella pittura come in una foresta tropicale
allagata di cemento, con guizzi felini, velocissime inerzie,
acredini mielate, ansietà notturne (o mattutine), decisioni spaziali
di geometria implacabile, in quest’ombra che acceca.

Ma il mondo è stupido, lo sai. Crede ai fantasmi
e non li crea. Noi, in compenso, ci nutriamo di carne umana: della nostra
carne corporale e mentale, di una fedeltà
portentosa a un’ossessione che non si polverizza.
E poi, tu ridi: nella bufera
e nella festa, col tuo bravo sarcasmo
inaddomesticabile: e metti in scena
il rovescio delle cose, albe illividite dei pensieri
che non camminano.

Così, Francesco, respiri il tuo smog, che è lo stesso
del mio: di me che amo le tue figurazioni, le tue
cancellazioni, i tuoi marasmi sanguinosi, dentro
una terra abolita. Mordi la lana
dei nostri abiti: ne uscirà solo pus, e qualche rivolo
di memoria desolata. Ma lo spazio bloccato
dei tuoi quadri è uno squarcio esterrefatto nella cancrena
quotidiana, una crasi nella sordità della vita
che non vive se stessa.

Ascolto la tua pittura parlata. La sento come un rombo, o
un fraseggio leggero. Tratti
con la distanza appassionata di un esploratore
senza speranza, lungimirante e cieco, una materia
sordida e sottile: e ne fai, in ragione di sincopi
fondamentali, un grande, misterioso registro di attenzione.
Questo è respiro e mano. Questo è rètina e gioco
che scherza con la morte.

La tua Francesco, è una scrittura bustrofedica
che si fa apparizione capestrana: e ora, qui, oggi, in questa
giornata di nembi senza furore, immersa
in una bolla di vuoto, ti saluto
con solitudine fraterna: tu chiudi gli occhi
sotto l’ala del tuo cappello di feltro a falde larghe, e insieme
chiediamo chissà cosa al guerriero
venuto da qualche illocalizzabile pianeta sotterraneo
nel suo buio radiante, col suo enigma.

Mario Lunetta
da “doppio fantasma” 91 poesie per 91 artisti
Chieti, marzo 2000